29 Giugno 2020

Passato agli onori della cronaca più per il suo crollo e la successiva demolizione che per la sua costruzione e funzionalità, il Ponte Morandi di Genova è il simbolo dell’Italia architettonica che riparte. Sono passati quasi due anni da quel 14 agosto 2018, quando un cedimento parziale della struttura ha provocato la morte di 43 persone e lo sfollamento di altre 566.

STORIA

Noto col nome di viadotto Polcevera, il ponte, progettato dall’ing. Riccardo Morandi e costruito dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua tra il 1963 e il 1967, sovrastava il torrente omonimo, oltre ai quartieri di Sampierdarena e Cornigliano nel capoluogo ligure.

Il viadotto, con i relativi svincoli, costituiva il tratto finale dell’autostrada A10, a sua volta facente parte della E80 europea.

Il 9 luglio 1959 l’ANAS bandì un concorso per la progettazione e la costruzione di un collegamento tra l’A10 (autostrada Genova-Savona) e l’A7 (Genova-Milano). Un progetto ambizioso e difficile, data la necessità di superare due grandi parchi ferroviari, un torrente e aree popolari come Sampierdarena e Cornigliano.

A rispondere all’appalto fu l’ingegnere Riccardo Morandi, che, grazie alle soluzioni tecniche innovative già sperimentate, vinse il concorso.

La costruzione, appaltata alla società Condotte, iniziò nel 1963.

L’edizione de La Domenica del Corriere del 1 marzo 1964 soprannominò l’opera “Il Ponte di Brooklyn Italiano”.

I lavori terminarono il 31 luglio 1967 e l’inaugurazione, datata 4 settembre 1967, fu presenziata dall’allora presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che lo definì pubblicamente “un’opera ardita e immensa”.

CARATTERISTICHE

Morandi optò per una struttura strallata in calcestruzzo armato e calcestruzzo armato precompresso, con cavalletti bilanciati e stralli omogeneizzati: questi ultimi, con una tecnica innovativa a livello mondiale ideata e brevettata da Morandi stesso, poi divenuta oggetto di controversie, erano rivestiti in calcestruzzo precompresso, allo scopo di proteggerli da pioggia e vento.

Tale soluzione aveva fruttato grande fama al progettista. Nel progetto Morandi riprese quanto da lui studiato per il ponte General Rafael Urdaneta di Maracaibo, in Venezuela. I concetti base della progettazione dei viadotti vennero poi replicati nella costruzione del ponte sul Wadi al-Kuf in Libia, del ponte Pumarejo in Colombia, del Viadotto Ansa del Tevere a Roma e del viadotto Carpineto di Potenza.

Ne risultò un’opera innovativa e imponente, articolata in undici campate, lunga 1102 metri, con un piano stradale largo 18 metri (una carreggiata a 4 corsie), ad un’altezza massima di circa 45 metri dal suolo. Le antenne di sostegno degli stralli, invece, erano alte 90 metri.

In corrispondenza delle campate di maggior luce, la porzione di struttura più caratteristica del viadotto era costituita da tre cavalletti cementizi bilanciati “omogeneizzati” (denominazione questa data da Morandi) che reggevano due coppie di stralli ciascuno.

Ciascun cavalletto bilanciato era costituito da due distinte strutture: una prima, a forma di quadrupla H (in giallo nello schema a lato), che aveva il compito di allargare la zona centrale ove poggiava la trave a 5 cassoni dell’impalcato stradale (due appoggi a circa 41 metri di distanza, in verde nello schema) e una seconda struttura a forma di doppia A, alta 90 metri e completamente slegata dalla precedente, con il compito di sostenere gli stralli che reggevano le estremità del cavalletto bilanciato, distanti circa 150m fra loro (in rosso nello schema). Ogni strallo era composto da 352 trefoli (passanti su una sella in testa all’antenna) pretesati in acciaio ad altissima resistenza, del diametro ciascuno di 1/2 pollice (12,7 mm) oltre a ulteriori 113 per la precompressione della guaina protettiva in calcestruzzo e collaboranti. Si noti che durante la costruzione, prima e durante l’installazione degli stralli, l’impalcato a sbalzo (in verde nello schema) era retto da appositi cavi provvisionali tesati, correnti a circa 2 m sopra l’impalcato stesso, poi rimossi a costruzione ultimata. Inoltre, nella zona centrale, l’impalcato non appoggiava sulla struttura ad A, ma solo su quella ad H, configurando pertanto uno schema statico su 4 appoggi.

Tale configurazione strutturale aveva consentito di coprire con ciascun cavalletto bilanciato “omogeneizzato” una luce di oltre 200 metri, senza interferire in alcun modo, neanche in fase di costruzione, con aree sottostanti.

La rimanente porzione del viadotto, che si estendeva verso ovest oltre il letto del Polcevera, adottava sei cavalletti a “V” in cemento armato ordinario (in viola nello schema) e una pila verticale all’estremità ovest, tutte separate da luci minori rispetto alla sezione strallata. L’obiettivo di siffatte soluzioni era quello di ridurre al minimo la porzione di suolo occupata dai sostegni, in quanto già negli anni sessanta la zona risultava fittamente edificata e infrastrutturata.

Ogni pila di sostegno reggeva dunque una propria porzione equilibrata e monolitica di impalcato stradale (in verde e in azzurro nello schema) e ai due estremi forniva l’appoggio per due ulteriori porzioni di “impalcato tampone” (in blu nello schema), costituite ciascuna da sei travi prefabbricate di raccordo lunghe 36 metri, in calcestruzzo precompresso, semplicemente appoggiate agli sbalzi adiacenti. È evidente che tale conformazione a elementi autonomi evitava il trasmettersi di deformazioni e tensioni parassite fra una porzione e l’altra del viadotto, ed ha evitato che il crollo della pila 9 avvenuto il 14 agosto 2018 trascinasse con sé le altre porzioni di ponte, che rimanendo in piedi garantirono l’evacuazione. È altrettanto evidente che le pile 8 e 10 sono risultate alleggerite, dopo il crollo, di parte dei carichi trasmessi dagli impalcati adiacenti, e pertanto non più perfettamente equilibrate come previsto dal progetto.

Ciascuna pila era fondata su una spessa platea seminterrata in calcestruzzo armato, a sua volta poggiante su una numerosa serie di pozzi in calcestruzzo trivellati nel fondovalle profondi fino a 50 m, per superare gli strati alluvionali e raggiungere il sottostante strato roccioso.

Il progetto di Morandi comprendeva anche le rampe di svincolo sul lato est del viadotto principale, delle quali le più significative erano quelle da e per la direzione nord: in particolare la rampa in direzione Milano è costituita da un impalcato elicoidale monolitico con travi a cassone curvilinee, con un raggio in mezzeria pari a 45 metri ed un’altezza massima di 39 metri.

PROBLEMI

Nel giro di pochi anni il ponte iniziò inoltre a mostrare problemi strutturali e di precoce obsolescenza, palesando in particolare un veloce e grave degrado dei materiali: lo stesso Morandi evidenziò a fine anni ’70 / inizio anni ’80 come la brezza marina ed i fumi corrosivi delle vicine acciaierie di Cornigliano stessero causando un serio degrado degli elementi metallici a vista e delle superfici in calcestruzzo. Egli finì dunque per ritenere che entro pochi anni sarebbe stato necessario intervenire sul ponte con manutenzioni mirate.

Per quanto riguarda gli aspetti statici, anche a causa delle conoscenze allora poco approfondite relative agli effetti della viscosità del calcestruzzo nel tempo, il ponte manifestò comportamenti strutturali diversi da quelli previsti: già pochi anni dopo l’ultimazione le strutture dell’impalcato iniziarono infatti a flettere, con la conseguenza che il piano viario del ponte, da orizzontale che era, finì presto per avere una conformazione ondulata. A tale inconveniente venne posto parziale rimedio negli anni ottanta con ripetute correzioni di livelletta.

Secondo alcune interpretazioni, particolarmente infelice si rivelò la tecnica adottata da Morandi di ricoprire gli stralli in calcestruzzo: tali elementi, nonostante l’intenzione fosse proprio quella di preservarli dalla corrosione, si rivelarono nel tempo non adeguatamente protetti dai fenomeni di degrado dovuti all’inquinamento industriale e alla salsedine. Inoltre la “guaina” di calcestruzzo rendeva assai difficile il controllo visivo delle condizioni dei trefoli in acciaio e rendeva impraticabile la loro sostituzione.

Nel 2006 l’architetto spagnolo Santiago Calatrava propose la demolizione e la ricostruzione del ponte con una nuova struttura in acciaio; tuttavia, considerata l’importanza del viadotto e gli effetti che avrebbe comportato la sua chiusura, il progetto fu rifiutato.

Vista della sezione strallata del viadotto nel 2008: sul pilone più a destra (n°11) sono ben visibili i cavi metallici a rinforzo degli stralli.

Con l’avanzare degli anni il viadotto venne peraltro caricato da un traffico notevolmente superiore a quello previsto dal progetto: nel 2009, secondo uno studio della Società Autostrade sulla gronda di Genova, il ponte sosteneva 25,5 milioni di transiti l’anno, con un traffico quadruplicato rispetto al precedente trentennio e con un’ulteriore crescita del 30% prevista per i successivi trent’anni. Lo studio sottolineava come il volume del traffico, causa di code quotidiane alle ore di punta (specialmente all’estremità orientale, all’innesto sull’autostrada Genova-Milano), producesse un aggravio delle sollecitazioni della struttura, accelerandone il degrado. A conferma di ciò, con l’avvento del terzo millennio, le attività manutentive si erano fatte praticamente quotidiane, con un conseguente aggravio dei costi gestionali. Lo studio ipotizzava che, nella variante della “gronda bassa“, il viadotto venisse demolito e sostituito da una nuova struttura posta poco più a nord. I costi per la continua e straordinaria manutenzione, secondo l’ingegnere Antonio Brencich (professore associato di costruzioni in cemento armato all’Università degli studi di Genova), avrebbero presto superato quelli di un’eventuale ricostruzione.

Uno studio effettuato a posteriori dalla NASA su dati satellitari opportunamente elaborati, ha evidenziato che fin dal 2015 il viadotto aveva incominciato a deformarsi in modo anomalo e significativo, e negli ultimi mesi di vita (dal marzo 2017 in poi) tale movimento era andato aumentando fino a 9-10 cm.

La struttura è stata soggetta a una serie di interventi conservativi dal 1981 al 2017.

DEMOLIZIONE

il 9 febbraio 2019 sono iniziate le operazioni di demolizione che hanno portato nel corso dell’anno a demolire le porzioni di impalcato di tipologia più tradizionale della parte ovest del viadotto. Il 28 giugno 2019, alle ore 9:37, sono state demolite le parti più caratteristiche e iconiche del ponte, cioè le pile strallate 10 e 11 della porzione est, nonché la rampa di raccordo a cantilever verso Ventimiglia, facendole implodere con cariche di dinamite. Preventivamente erano anche stati demoliti i condomini sottostanti il ponte.

La demolizione controllata è avvenuta in quattro fasi:

  • Fase 1: per la campata 11, si è effettuato il taglio degli stralli mediante cariche esplosive direzionali, dette “cariche cave”; i sostegni ad A degli stralli sono quindi caduti in direzione ovest.
  • Fase 2: sia alla pila 10 che alla pila 11 è avvenuta l’elevazione di muri d’acqua tramite cariche esplosive fino a una altezza di circa 90 metri, mitigando in tal modo la diffusione di polveri.
  • Fase 3: sono state fatte collassare le strutture portanti centrali di entrambe le campate, nonché dei pilastri ad A che reggevano gli stralli.
  • Fase 4: sono stati innalzati muri d’acqua alti circa 40 metri ai lati della struttura, al fine di contenere una parte delle polveri generate dal crollo.

Le quattro fasi si sono sviluppate nell’arco di 6 secondi, utilizzando circa 500 inneschi elettronici, oltre 500 kg di dinamite e 5000 metri di miccia detonante.

Il costo della demolizione in quattro mesi è stato di 21,4 milioni di euro ed è stato aggiudicato dalla ditta Fagioli di Genova.

In seguito a ciò, l’unica struttura funzionalmente superstite e integra del progetto di Morandi risulta pertanto la sola rampa elicoidale di raccordo verso la A7 e A12.

IL NUOVO PONTE MORANDI

Si chiamerà Ponte per Genova il viadotto autostradale in costruzione, che sorgerà al posto del Ponte Morandi.

Il progetto è stato realizzato da Renzo Piano.

Il nuovo ponte sul Polcevera rappresenta un importante nodo per i collegamenti stradali e di trasporto a Genova, in Liguria e in tutta Italia. A seguito del crollo del ponte Morandi il 14 agosto 2018, la sua rapida ricostruzione mira a diventare un modello per il rinnovamento e l’adattamento delle infrastrutture italiane con un alto significato sociale, economico e strategico. Il nuovo viadotto, che attraversa l’area antropizzata della Val Polcevera, assume il carattere di un “ponte urbano”. Questa condizione ha caratterizzato il design, garantendo che sia in sintonia non solo con l’infrastruttura stessa, ma anche con il forte rapporto con l’area circostante.

Il nuovo ponte è appoggiato a terra per mezzo di sottili pilastri in cemento armato con una sezione ellittica di 4 metri per 9,5 metri. La geometria dell’ellisse, senza spigoli vivi, consente alla luce di “scivolare” sulla superficie, mitigando così l’impatto visivo e la presenza nel contesto urbano dei nuovi moli.

Il ponte è sostenuto da diciotto moli con un passo costante di 50 metri, ad eccezione delle tre campate centrali che, attraversando il torrente Polcevera e le aree ferroviarie, hanno un passo di 100 metri. La disposizione dei moli è il risultato di una scelta architettonica volta all’utilizzo di elementi più frequenti ma aerodinamici che si adattano meglio a un tessuto urbano irregolare. Da un punto di vista strutturale e sismico, il ponte viene “isolato” dai moli attraverso l’uso di dispositivi di supporto che consentono al ponte di “respirare” senza che vi sia alcuna influenza sulla sua stabilità e resistenza. Questo approccio ha permesso di ottimizzare strutture, sottostrutture e, in particolare, fondazioni, limitandone le dimensioni in un contesto altamente urbanizzato. Da un punto di vista architettonico, la forma descritta dal mazzo, che ricorda lo scafo di una nave, è di grande importanza. La graduale riduzione della sezione verso le estremità del ponte attenua l’impatto visivo della nuova infrastruttura. Inoltre, l’uso di un colore chiaro per il rivestimento degli elementi in acciaio rende il ponte luminoso, armonizzando la sua presenza nel paesaggio.

La necessità di ricollegare i rami stradali esistenti – sul lato ovest, i tunnel della Coronata e, sul lato est, dagli incroci verso l’autostrada A7 – era la base per tracciare le strade del nuovo ponte e la nuova rampa di accesso verso ovest. Rispetto alla sezione originale del ponte Morandi, la sezione stradale è stata inoltre dotata di una corsia di emergenza in entrambe le direzioni al fine di garantire la sicurezza stradale e la possibilità di eseguire lavori di manutenzione lungo il ponte senza dover ricorrere alla chiusura del corsie di traffico ordinarie.

Come conseguenza della grande tragedia che fu il crollo parziale del Ponte Morandi, il desiderio di ricostruire e riavviare si pose immediatamente un obiettivo più ampio, quello di costruire un nuovo ponte in grado di rappresentare la vera forza motrice dietro la trasformazione dell’intera area della Val Polcevera. Pertanto, la costruzione del ponte sarà accompagnata da gare d’appalto per gare pubbliche allo scopo di realizzare opere di rigenerazione urbana, sociale e ambientale. In particolare, verrà creato un nuovo parco pubblico che, attraverso un memoriale, commemora le vittime del crollo e ripristina il fragile ecosistema naturale della Val Polcevera.